Le moderne interfacce desktop sono piatte, scomode e retaggio del passato
Tra bottoni che non si vedono, bordi che mancano, barre che spariscono e una generale tendenza a importare sul desktop i design pensati per i dispositivi mobili, le moderne interfacce dei sistemi operativi per computer sono diventate un colabrodo. Ma c’è di più: sono diventate inadeguate all’odierno modo di lavorare.
Terza puntata della serie di articoli dedicata alle interfacce grafiche: questa volta con un focus però sullo stato dei sistemi operativi desktop, un po’ snobbati di questi tempi, ma ancora fondamentali in molti ambiti e centrali nella vita di chi con un “computer”, in senso lato, deve lavorarci.
Il guaio è che non solo l’interfaccia desktop viene snobbata dai clienti finali, il che ormai è abbastanza normale, ma viene trascurata in primis da chi la deve disegnare e rifinire; ogni riferimento a Microsoft ed Apple è puramente casuale.
Le interfacce desktop moderne sono anzitutto troppo piatte e poco usabili; se guardiamo agli elementi di base notiamo che mancano molto spesso i fondamentali: un esempio lampante sono le barre di scorrimento che sono sempre più sottili e a volte spariscono fino a che non si scorre la pagina con il mouse o il trackpad; una soluzione molto elegante, perché mette al centro dell’attenzione il contenuto della finestra e crea un maggiore senso di simmetria, ma decisamente poco pratica. Stanno poi sparendo persino le barre dei titoli: storicamente nei sistemi desktop ogni finestra aveva una barra superiore con il titolo e i controlli della finestra, che poteva essere usata agevolmente per riconoscere il documento aperto e soprattutto per trascinare la finestra in giro per lo schermo. Beh, è sempre più frequente nelle finestre di sistema e nelle applicazioni degli sviluppatori terzi l’abitudine di rimuovere la barra dedicata del titolo condensando in unico spazio nella parte alta della finestra una buona quantità di bottoni e strumenti che fanno parte dell’applicazione, con il risultato – ma questo è il meno – di rimuovere il titolo dalla finestra, ma soprattutto rendendo macchinoso spostare le finestre in giro per lo schermo, con grande frustrazione dell’utente che si chiederà da dove esattamente dovrebbe prendere le finestre: anche in questo caso viene sacrificata l’usabilità in nome di una maggiore eleganza e minimalismo. Peccato che il minimalismo voglia rimuovere il superfluo, non quello che è utile.
Un altro problema nell’usabilità dei moderni sistemi desktop è il design dei bottoni: i bottoni sono quegli elementi che permettono all’utente di impartire i comandi alle applicazioni, e quindi è fondamentale che siano ben visibili e che il loro significato sia chiaro. Eppure i bottoni, se guardiamo alle ultime iterazioni degli OS, sono sempre più stilizzati, minimali e poco visibili. Un buon bottone dovrebbe essere ben visibile e soprattutto identificabile come un elemento che si può cliccare; tuttavia, la sparizione di ogni tridimensionalità ha reso più difficile per gli utenti capire cosa si può cliccare e cosa no; in più nella ricerca del minimalismo molto spesso oltre alla tridimensionalità sono spariti pure i bordi, cosicché è diventato complicato capire a colpo d’occhio dove sono i bottoni e qual è l’area cliccabile, che frequentemente viene evidenziata con un alone tenue o con un bordo sottile solo quando si passa con i mouse sopra questa area cliccabile: tutto ciò rende l’interazione con il sistema alquanto frustrante e lenta. Anche perché le icone, dai bottoni più grandi ai tasti più piccoli, sono sempre più dei glifi minimali ma poco comprensibili, che a un primo impatto sembrano quasi tutti uguali, o che addirittura compaiono solo al passaggio in una certa area con il mouse, e che altrimenti restano invisibili: terribile.
Come del resto è terribile che molti elementi, anche cliccabili, dell’interfaccia siano disegnati con tinte troppo tenui e poco visibili. Ed è proprio il colore, o meglio, la sua assenza, uno degli elementi che contribuisce a rendere gli elementi chiave dell’interfaccia così poco user friendly: nel tentativo di raggiungere un maggiore minimalismo è diventato tutto monocromatico, poco visibile e meno intuitivo. Una bella icona colorata e con un accenno di tridimensionalità è molto più riconoscibile di un piccolo glifo che ha lo stesso aspetto di tutti gli altri glifi accanto, e che costringe a doverci passare sopra con il mouse per aspettare la comparsa del testo che lo descrive, rendendo quasi inutile la presenza stessa di un’icona. Sembra che i designer si siano lasciati ossessionare dalla preoccupazione di rendere il design, per dirlo con il termine originale, “consistent”, cioè coerente nel linguaggio grafico in ogni sua parte; una scelta questa che rende l’aspetto complessivo indubbiamente più grazioso ma, ancora una volta, scomodo.
La sparizione dei gradienti, dei bordi e delle ombre contribuisce poi a rendere tutto troppo piatto: persino i sistemi di fine anni ’90 avevano un aspetto più tridimensionale di quelli odierni, pur non potendo fare affidamento sulla potenza di calcolo dei computer attuali. Avere un minimo di tridimensionalità è molto importante per permettere una navigazione fluida, intuitiva e rilassante nel sistema, perché dà all’utente la sensazione di avere tutto sotto controllo. Se invece è tutto piatto la sensazione sarà quella di non avere il controllo delle proprie finestre, e l’interazione diventa più macchinosa e frustrante. Il design piatto è molto elegante e alla moda, non c’è dubbio, ma è evidente che abbia portato ad una perdita di usabilità; essere alla moda, a quanto pare, è diventato più importante che essere funzionali per le persone.
Finora abbiamo esaminato l’aspetto puramente grafico delle moderne interfacce desktop, ma non ci siamo ancora domandati le ragioni che hanno portato i designer a prendere certe decisioni che, come abbiamo visto, stanno portando agli utenti più problemi che benefici. Affermare d’altra parte che questi non sappiano quello che stanno facendo sarebbe riduttivo, oltre che scorretto. E in effetti la ragione principale per cui gli attuali sistemi desktop hanno i problemi di cui abbiamo parlato finora è la convergenza, anche visiva, con le piattaforme mobili. Poiché queste sono diventate ormai le piattaforme dominanti sia per il numero di utenti che per la quantità di tempo che le persone ci spendono sopra, è chiaro che per attrarre nuovi utenti verso un sistema desktop diventa necessario renderlo quanto più possibile esteticamente, e in parte anche funzionalmente, simile alle piattaforme mobili. D’altra parte è naturale per le aziende guardare alle masse, sono loro che permettono di portare certi risultati agli azionisti. Se chi è nato con i sistemi desktop nota tutti i difetti di cui sopra - e tende ad essere un purista delle interfacce classiche, storcendo il naso davanti alla convergenza con le piattaforme mobili, ritenendo giustamente che sistemi pensati per dispositivi e per scopi diversi debbano essere diversi - chi invece è da sempre abituato a usare smartphone e tablet – che è ormai la maggioranza delle persone – si troverà probabilmente a disagio davanti a un desktop “vecchio stile”, e preferirà certamente le implementazioni più moderne, coerenti con il design tipico dei dispositivi mobili.
Se però queste interfacce piatte funzionano bene su smartphone e tablet, è evidente che sul desktop facciano acqua da tutte le parti. E non c’è da stupirsi: sono state progettate per schermi piccoli, dove vengono visualizzate poche informazioni alla volta, e per l’uso con le dita. Portare questo stile su schermi grandi, con un numero di elementi cliccabili, anche molto piccoli, assai superiore rispetto a quello che si può trovare sul piccolo schermo di un cellulare, ha una serie di effetti negativi sull’usabilità. E infatti, se guardiamo alle attuali release di Windows e macOS, notiamo che molti controlli e bottoni sembrano più ottimizzati per l’uso con il touch che con mouse e tastiera: l’esempio più evidente è il centro di controllo di macOS che ricalca quello già presente su iPhone e iPad, ma che con mouse e tastiera sembra veramente fuori posto. E gli stessi difetti si trovano all’interno delle applicazioni degli sviluppatori terzi, che sempre più spesso non sono native per desktop, ma sono porting di applicazioni mobili: al di là di considerazioni sulle prestazioni che il porting di un’applicazione mobile possa avere su hardware desktop, è evidente che l’interfaccia di queste app mal si adatta all’uso con mouse e tastiera. Non ne facciamo però una colpa agli sviluppatori, ovviamente: se ci sono sviluppatori la cui user base si trova prevalentemente su mobile, è logico che questi investano la maggioranza delle proprie risorse sullo sviluppo delle applicazioni mobili, per poi eventualmente rilasciare una versione desktop, che resta comunque un pensiero secondario, e che resterà sempre una app nata per il mobile, con un design touch oriented.
La seconda convergenza dopo quella con i dispositivi mobili è quella con il web: se pensiamo all’uso che oggi le persone fanno con i computer, notiamo che la maggior parte del tempo viene speso su siti web che girano nel browser, oppure in applicazioni che richiedono internet per funzionare. Gli sviluppi delle tecnologie web hanno porato ad avere dei siti che sono delle app a tutti gli effetti, anche se limitate in alcune funzioni e soprattutto nella potenza sfruttabile rispetto a delle app puramente desktop che girano in locale. Nei siti per ovviare alla latenza e al deficit di performance insito nel fatto di non poter girare in locale sono stati elaborati diversi escamotage per rendere più gradevole l’esperienza dell’utente: ad esempio, invece di lasciar attendere a lungo il caricamento di una pagina, o di una finestra di dialogo, questa viene caricata parzialmente e poi modificata con l’aggiunta degli elementi che inizialmente non erano ancora stati caricati. Per quanto migliore di un lungo tempo di caricamento, questa scelta del design dinamico resta pur sempre una soluzione di compromesso, di gran lunga inferiore all’esperienza che si ottiene normalmente su un’applicazione in locale, dove tutto viene caricato al momento dell’apertura ed ogni elemento dell’app è pronto all’uso. Ebbene, con il proliferare su desktop di app ibride che sono di fatto siti web evoluti che girano in locale, questo comportamento sta divenendo sempre più comune un po’ ovunque, persino in quelle app che sono native desktop. Eppure queste interfacce dinamiche sono tutto fuorché l’ideale, visto che non permettono all’utente di sviluppare una memoria muscolare per usarle, e anzi spesso lo costringono a cliccare su un elemento proprio mentre l’interfaccia stava cambiando, producendo un clic a vuoto o errato, con grande frustrazione dell’utilizzatore. Insomma, per creare una sensazione di rapidità e raffinatezza queste app mentono all’utente, presentando dei bottoni per poi spostarli immediatamente, con una conseguente perdita di prevedibilità, che invece sarebbe fondamentale perché l’utente si possa muovere con rapidità e sicurezza nel sistema.
Restando infine in tema di interfacce che cambiano, non si può fare a meno di menzionare il tema degli aggiornamenti software, che spesso portano cambiamenti graduali nell’interfaccia: ad ogni aggiornamento viene modificato un piccolo elemento nell’aspetto dell’app, causando inutili interruzioni nel workflow. Il punto è che generalmente questi cambiamenti vengono portati con poca logica: poiché oggi le aziende possono contare sul fatto che tutti i loro utenti sono connessi a internet, si prendono la libertà di cambiare le cose con leggerezza, sapendo che è sempre possibile rimediare con il successivo aggiornamento. Questo approccio può essere utile, ma l’abuso che ne è stato fatto ha portato ad avere interfacce in continuo cambiamento e utenti costantemente trasformati in beta tester.
Discusse le ragioni che hanno portato all’attuale stato delle interfacce desktop, avrete sicuramente notato a questo punto che i due principali elementi di rottura sono stati l’avvento del web e dei dispositivi mobili: questi hanno cambiato le abitudini delle persone, il loro modo di lavorare e di comunicare. Il fatto però è che l’attuale metafora del desktop è di molto antecedente ad ambedue questi fenomeni, e appare sempre più inadeguata al mondo contemporaneo e all’attuale modo di lavorare.
Per rendersi conto di quanto appena affermato si può provare ad accendere un vecchio Macintosh degli anni ’80 o anche un PC di inizio anni ’90: nel momento in cui ci sederemmo davanti ci troveremmo di fronte a un’interfaccia molto familiare, e probabilmente saremmo anche in grado di muoverci nei menù e nelle finestre, eppure dopo poco ci fermeremmo a chiederci: “Ma quindi posso fare qualcosa con questo computer?”. Il motivo di tale domanda va cercato nel fatto che, come scritto sopra a proposito della convergenza con il web, oggi la gran parte di ciò che facciamo con i computer desktop avviene nel browser o in applicazioni che richiedono internet per funzionare. Anzi, la stessa domanda ce la si potrebbe porre davanti a un computer di attuale generazione senza una connessione a internet.
Quindi di fatto le attuali interfacce desktop sono nate in un mondo in cui con i computer si facevano cose diverse, un mondo in cui i computer erano pensati per persone che lavoravano in ufficio e a cui serviva una metafora che ricalcasse il modo di lavorare nel tipico ufficio degli anni ’80. Una metafora, dunque, che prevede lunghe sessioni di lavoro su un documento alla volta, e inadatta all’uso moderno del computer, in cui tendiamo invece a lavorare su piccoli frammenti di informazione alla volta, frammenti che possono essere file scaricati per spostarli da un posto all’altro, documenti o siti aperti solo per leggerli, elementi copiati nella clipboard, e così via. In questo scenario avremo probabilmente aperti contemporaneamente molteplici file e applicazioni, molti dei quali sono solo transitori, e con il web come filo conduttore del lavoro che stiamo svolgendo.
Stiamo pertanto inserendo di forza una marea di dati e informazioni all’interno di una metafora pensata in un'altra epoca e per un altro modo di lavorare, producendo un carico cognitivo notevole e frustrante per la mente umana e anche per il computer: se pensiamo alla nostra esperienza con i dispositivi mobili, tenere aperte molte app insieme non ha effetti negativi sulle prestazioni, mentre in ambito desktop dobbiamo stare attenti alla quantità di cose aperte per non rischiare di saturare le risorse.
E in tutto questo gli utenti generalmente fanno fatica a tenere traccia di tutte le cose che hanno aperto e su cui stanno lavorando, finendo per perdere informazioni utili, che poi diventa complicato ritrovare. Pensiamo a tutti quei documenti che scarichiamo per leggere e che non ritroveremo mai più, o alle pagine web che apriamo e che è più semplice cercare nuovamente su Google la volta successiva piuttosto che cercare nella cronologia o salvare da qualche parte.
Insomma, quando nuove tecnologie emergono - e in questo caso stiamo parlando comunque di una evoluzione che prosegue da decenni - tendono ad ereditare il peso del passato. E nello specifico la metafora del desktop oggi è un fardello che ci portiamo dietro e da cui sarà difficile liberarsi, perché è difficile che le persone cambino abitudini, ma che è inadatto come abbiamo visto al moderno modo di lavorare.
E infatti servirebbe un design delle interfacce desktop basato su task, su frammenti di informazione. Oggi invece seguiamo ancora i principi degli uffici totalmente cartacei del secolo scorso, in cui ogni documento è contenuto in un file, che a sua volta è contenuto in una cartella. Insomma, il design ideale assomiglia per certi aspetti terribilmente a quello di un browser con un motore di ricerca. Pensandoci, quello che fanno un browser e un motore di ricerca insieme è strabiliante: su internet nel 2024 ci sono stati in media 2 miliardi di siti, di cui circa 1,2 sul World Wide Web, una complessità lontana dalla comprensione umana. Una complessità che tuttavia non viene percepita dall’utilizzatore, che si trova davanti a un’interfaccia semplice e rassicurante.
A far notare questa cosa ci pensò anche Steve Jobs alla conferenza D3 del 2005, in cui per presentare Spotlight, il sistema di ricerca su macOS, affermò come fosse più difficile trovare le cose che ci servono sui nostri computer che su tutti i server del web tramite internet. Per quanto Spotlight sia oggi, a vent’anni di distanza, tutt’altro che perfetto, il concetto alla base è senz’altro corretto. Come è corretta l’affermazione che fece nella stessa sede secondo cui il file system sarebbe diventato un’applicazione di nicchia per soli professionisti, mentre la maggioranza delle persone avrebbe smesso di usarlo. Sebbene oggi il file system sia ancora molto usato sul desktop, sui dispositivi mobili, quelli che vengono poi usati dalla maggioranza delle persone, questo è confinato a un’applicazione che viene aperta molto di rado, e che anzi spesso in molti non sanno nemmeno che esista. Le persone invece gestiscono i propri file tramite applicazioni dedicate per foto, musica e così via. Si potrebbe dire che il computer desktop di per sé sia diventato uno strumento per soli professionisti, per chi deve lavorare, mentre i dispositivi mobili sono quelli per la massa. Così però i professionisti si trovano a lavorare in un modo antico e che andrebbe ripensato, anche se nel breve periodo è davvero difficile ipotizzare alcun cambiamento importante nello status quo.